Accettarsi ed essere se stessi è il primo passo per costruire una società che sia più inclusiva, capace di accogliere, rispettare e valorizzare le diversità
Accettarsi ed essere se stessi è il segreto per una società più inclusiva, tollerante e in grado di valorizzare le differenze tra i suoi membri. Proviamo a spiegare perché.
Secondo la psicologia sistemica, che considera la persona immersa in un sistema (familiare, lavorativo, sociale, etc.), c’è un legame tra il rapporto che si ha con la società e il rapporto con se stessi o con alcune parti di sé, e viceversa.
Secondo questo punto di vista, il modo in cui ci comportiamo nella società dice molto anche riguardo alle nostre convinzioni su noi stessi. Allo stesso modo, i modelli sociali influenzano il nostro modo di essere, spingendoci a conformarci a determinati modelli e ideali: ma è davvero questo il segreto di una società inclusiva?
La società inclusiva e il concetto di inclusione
Il concetto di inclusione in realtà è esattamente opposto a quello di conformismo: se tutti aderiamo a dei modelli e facciamo di tutto per assomigliare ad essi, non ci sarà molto spazio per l’inclusione, che presuppone fare spazio a qualcosa di diverso, prima dentro di noi e poi all’esterno.
Questo significa in primo luogo accettarsi e imparare ad essere se stessi, per poi fare spazio all’altro e iniziare a costruire una società che sia realmente basata sull’inclusività, la tolleranza e il rispetto.
Ma perché è così difficile essere se stessi?
Accettarsi ed essere se stessi non è facile
Nella società moderna, molti vivono in una convinzione che si rivela in realtà una grande illusione: quella di essere uno solo.
Siamo uno, nessuno o centomila?
Anche scrittori del calibro di Pirandello hanno riflettuto su questa tematica.
La psicoterapeuta statunitense Virginia Satir ha affrontato l’argomento disegnando un mandala che ha intitolato “io sono”, nel quale ha racchiuso il corpo, i sentimenti, i sensi, le relazioni, l’intelletto, il contesto e l’anima.
Il motivo di questo fraintendimento è che tendiamo a costruire un’idea di noi stessi coerente, unitaria, quando in realtà siamo semplicemente molto di più: anche se ci percepiamo come unità, dentro di noi ci sono sentimenti, emozioni, pensieri che possono anche essere contrastanti.
Accettarsi ed essere se stessi significa proprio questo: non rinnegare le parti di sé che sono meno armoniche e più stridenti, ma accettarle come parte della nostra personalità complessa e sfaccettata.
Ecco allora che accettare noi stessi è il primo passo per accettare l’altro e quindi porre le basi di una società realmente inclusiva.
Accettarsi ed essere se stessi: il ruolo dei modelli sociali
Tuttavia, il contesto sociale non sempre ci facilita questo compito, anzi: spesso viene proposto (o imposto? a voi la scelta) un’ideale, che può essere estetico, professionale, familiare etc., a cui corrispondere.
Questo ideale non fa altro che nutrire la tendenza a pensarsi come unitari, proprio perché si vuole coincidere con un’idea.
Per conformarci a quell’idea siamo spesso spinti a mettere in atto, in modo inconsapevole, una serie di comportamenti e dinamiche relazionali. In questo modo però, anche se non ce ne accorgiamo, ci allontaniamo da noi stessi negando e tagliando fuori parti anche importanti di noi.
Quelle parti, spesso respinte perché non conformi all’ideale e giudicate come negative, inevitabilmente finiscono per essere collocate al di fuori di sé.
È in questo momento che l’altro, il diverso da me, diventa così il contenitore di tutto ciò che io sono convinto di non avere dentro di me e che non voglio, altrimenti mi allontanerei da ciò che è ideale e a cui voglio corrispondere a tutti i costi.
Quando l’altro diventa “il diverso”
Pensare in questi termini, porta a definire in modo chiaro e netto la distinzione tra me e l’altro, e quindi a separare nettamente ciò che è “buono” da ciò che è “cattivo”.
Ne consegue che un vero incontro tra me e ciò che è diverso da me sarà impossibile, non almeno fin quando io non sceglierò di incontrare quelle parti di me che tanto mi sforzo di tenere a distanza, “fuori”.
A livello sociale, le varie minoranze, i bersagli della mia lotta al “tenere fuori”, sono una rappresentazione di qualcosa che per me è davvero importante non accogliere dentro di me. Questo diventa quindi un discorso personale, che può essere più o meno sollecitato da agenti esterni.
Come scrive la poetessa Chandra Livia Candiani infatti: “quasi sempre noi non incontriamo gli altri, ma le opinioni che abbiamo su di loro; non incontriamo le loro visioni ma la nostra reazione alle loro visioni, non usciamo quasi mai dallo schema della ragione o del torto.”
Accettazione e perdita: le radici dell’inclusività
Cambiare prospettiva è possibile solo lasciando andare questo modo di pensare e accogliendo ciò che si tende a voler escludere. Attraverso la perdita quindi, che spesso è pensata come qualcosa di estremamente negativo.
Qui la perdita non è intesa come un lutto, ma come il coraggio di cambiare, abbandonando alcuni schemi e modelli mentali che ci spingono a conformarci ad un ideale.
Accettando di “perdere” quegli schemi possiamo incontrare nuove parti di noi, quindi in realtà guadagnare qualcosa: una maggiore ricchezza interiore e un nuovo modo di guardare a noi stessi e all’altro con maggiore tolleranza, con rispetto e anche con amore.
Sarà allora, attraverso l’inclusione e l’accettazione di nuove parti di me, che potrò partecipare alla costruzione di una società più inclusiva.
Per una società più inclusiva dovrò partire da me, iniziare a pensare di poter essere parte della soluzione.
Citando la psicoterapeuta sistemico-familiare statunitense Virginia Satir:
Il tuo obiettivo non è quello di liberarti dai pensieri, dalle emozioni e dalle situazioni negative. Il tuo obiettivo sarà quello di cambiare il modo in cui rispondi e reagisci a tutto questo.