“Molto forte, incredibilmente vicino” è un film tratto dall’omonimo libro, che racconta la storia di Oskar, un bambino di 10 anni che ha perso suo padre nell’attentato alle Torri Gemelle l’11 settembre del 2001.
Oskar è un ragazzo molto sveglio, stracolmo di creatività, fantasia, curiosità e intraprendenza; un giorno mentre stava frugando nel ripostiglio del padre, dentro ad un vaso, trova una chiave con una scritta: Black.
Convinto che quello sia un messaggio lasciato dal defunto padre, si mette a cercare tutti i Black di New York per sapere a chi appartenga quella chiave e soprattutto cosa apra.
Per scoprirlo Oskar intende bussare alla porta di tutti i Mr e Mrs Black della città: forse uno di loro sa qualcosa, conosce un segreto che può farlo sentire più vicino al padre.
Organizza così tutti i nomi in un elenco, divisi per quartieri e comincia a far visita ad ognuno di loro girovagando per tutta la città di New York. Dopo numerose ricerche ed incontri particolari il protagonista verrà a capo dell’apparente e banale mistero, su cui tutta la storia è incentrata.
Ora vi starete chiedendo perché questa storia? E soprattutto cosa ha a che fare con ciò che stiamo vivendo in questo terribile ed unico momento storico.
Sicuramente la perdita della figura paterna del protagonista richiama, in qualche modo, la perdita delle figure genitoriali che tante persone hanno subito durante questa pandemia.
Il film, certo, può essere uno spunto di riflessione su come cercare di elaborare un lutto improvviso in una situazione di emergenza; il protagonista, attraverso la ricerca di significato dell’ultimo messaggio, inizia ad elaborare la perdita dell’amato padre.
Ma la prima volta che ho visto questo film, tanti anni fa, fu una frase in particolare a colpirmi.
Oskar è un bambino con la sindrome di Asperger che, per portare a termine la sua missione di ricerca della serratura che apre la chiave lasciata dal padre, intende bussare alla porta di tutti i Black di New York.
Organizza quindi un meticoloso ed accurato itinerario con le tappe da seguire per svelare il mistero.
Ed è proprio durante l’organizzazione del suo piano che afferma:
“Avevo cominciato con un problema semplice: una chiave senza serratura; avevo progettato un sistema che credevo potesse risolvere il problema: avevo suddiviso tutto in parti piccolissime e cercavo di considerare ogni persona come un numero di una gigantesca equazione, ma non stava funzionando perché le persone non sono numeri, assomigliano più a delle lettere e quelle lettere vogliono diventare storie! E papà diceva che le storie vanno condivise. Avevo previsto una visita di 6 minuti ad ognuno dei Black, ma non erano mai solo 6 minuti. Ognuno di loro mi portava via più tempo di quanto avessi calcolato, perché ognuno di loro cercava di tirarmi su per la faccenda di mio padre e mi raccontava la sua storia…” […]
Io so perché, all’epoca, questa frase mi colpì. Ero una studentessa di psicologia e se avevo scelto questa strada era proprio perché volevo conoscere le storie delle persone. È stata sicuramente la mia smodata curiosità nei confronti degli esseri umani e nelle loro storie che mi ha portato a scegliere questo lavoro.
Mi segnai la frase su qualche quaderno di appunti e continuai il mio percorso consigliando a molti miei colleghi di vedere il film o di leggere il libro.
In questi giorni, come tutti, sto vivendo il lockdown a causa della pandemia del coronavirus e ogni giorno sono “bombardata” da notizie sul numero di morti e di vittime di questa immensa tragedia.
Davanti a queste drammatiche notizie mi capita spesso di non provare nulla davanti al bollettino freddo della comunicazione della Protezione Civile sui nuovi contagi, nuovi decessi e nuovi guariti.
Li ascolto ed è come se il mio cervello assimilasse questa informazione come una qualsiasi altra informazione giornalistica, senza provare un minimo di emozione, nulla.
La cosa all’inizio non mi ha turbato più di tanto, da psicologa ho pensato fosse un meccanismo di difesa di fronte ad un’angoscia, che, nel caso fosse esplosa, sarebbe stata devastante, ma questa spiegazione così scientifica non mi ha convinto poi tanto.
Ogni tanto continuavo a ripetermi “sono più di 1000 morti, 1000 persone, ognuno con la sua storia, la sua famiglia, i suoi legami, i suoi affetti, la sua storia ed io non riesco a provare nessun tipo di emozione.”
Poi, all’improvviso, la frase del film, che per tutti questi anni era rimasta sullo sfondo, è ricomparsa nella mia memoria e allora sono corsa a scavare tra i vari quaderni per cercarla, quasi con la stessa frenesia con cui Oskar cerca la serratura della sua chiave. “…perché le persone non sono numeri, assomigliano più a delle lettere e quelle lettere vogliono diventare storie”; quando ho fatto la stessa operazione del protagonista del film: trasformare i numeri in lettere e successivamente le lettere in storie, ho iniziato a sentire tutto quel dolore sommerso per le vite che il virus ha spezzato.
Poi ho continuato la mia ricerca, poiché mi chiedevo se fossi la sola che davanti a questo bombardamento mediatico continuo sui numeri così alti dei decessi e numeri di contagi mettesse in atto questo tipo di meccanismo di difesa* (nota come meccanismo di negazione) ed ho scoperto che:
“UNA MORTE È UNA TRAGEDIA, UN MILIONE DI MORTI È STATISTICA”
Questa frase, che è stata erroneamente attribuita a Stalin, spiega in poche parole come funziona il nostro cervello: il numero, specialmente se é un numero alto, è qualcosa di impersonale.
Secondo quella che gli esperti chiamano “ipotesi sensoriale”, la numerosità è una proprietà visiva primaria, così come il colore o l’orientamento di un oggetto nello spazio.
C’è però una grande differenza tra piccoli e grandi numeri: è esperienza comune il riuscire a giudicare immediatamente il numero degli oggetti quando questi arrivano a cinque o sei, ma la correttezza del giudizio si perde rapidamente via via che gli oggetti aumentano.
Cosa vuol dire questo?
Significa che essendo la numerosità una proprietà visiva risponde alle leggi della percezione e che quindi noi esseri umani non siamo in grado di percepire i grandi numeri.
Ecco che quindi quando sentiamo, come purtroppo è accaduto spesso in questi giorni, notizie come “1000 morti, 1200 contagiati e così via”, il nostro cervello, non riuscendo a percepire la reale grandezza di quel numero, lo associa ad una grandezza astratta e quindi del tutto impersonale.
Ecco spiegata la sensazione di vuoto e imperturbabilità.
Quando però una sola di quelle morti, riesce a diventare una storia, una vita, un qualcosa con cui riuscire ad immedesimarsi, ritorniamo umani e percepiamo la tragedia, riuscendo a sentire e provate tutte le emozioni ad essa legate.
Probabilmente anche questo può essere definito come un meccanismo di difesa del nostro cervello volto a proteggerci da un dolore e un’angoscia, che, se percepiti realmente, sarebbero immensi.
Ma, come Oskar, se sono qui a scrivere questo articolo è perché ho sentito dentro me il bisogno di compiere quel passaggio dal numero, alla lettera, e magari, più in là, ad una storia da raccontare.
Personalmente questa tragedia mi ha colpito solo in parte, nessuno dei miei cari è stato colpito da questo virus e questo, forse mi aiuta a rendere la mia analisi un po’ più lucida, ma come persona e come psicologa non posso fare a meno di pensare a quante storie siano state interrotte, quante vite siano state spezzate e quante ancora siano sospese.
Le emozioni sono ancora aggrovigliate tra loro sullo sfondo, molto complicate da sbrogliare e difficili da identificare, ma ci sono, le sento.
Qui e ora tutto è molto lontano, ma incredibilmente forte.
Jonathan Safran Foer, Molto forte, incredibilmente vicino, 2005, Guanda, Parma, 2016.
Le Scienze, edizione italiana di Scientific American, 29 settembre 2015.